(ROMA - Giornale di Napoli - mercoledì 15 dicembre 1999)
La notizia, anche se in apparenza futile, è di quelle capaci di suscitare prima incredulità, poi sacrosanta indignazione: la Comunità Europea avrebbe proibito l’uso del forno a legna per la cottura della pizza napoletana, in quanto "antigienico"; esso infatti raggiunge una temperatura massima di "soli" 350°C, a fronte dei 450°C del forno elettrico (quello oggi usato per fare il pane, per intenderci).
Ora, considerando che, come sanno anche gli scolaretti della prima elementare, basta portare un cibo o un qualsiasi oggetto alla temperatura di 100°C per sterilizzarlo completamente, cioè per uccidere tutti i germi presenti, la preoccupazione dei governanti europei per la nostra salute ci sembra come minimo sospetta, a meno che nella loro lungimiranza non abbiano pensato a un’eventuale invasione di alieni extraterrestri capaci di resistere e di prosperare nel non indifferente calore di un forno a legna. Ipotesi questa da scartare immediatamente, ove si pensi che questi alieni potrebbero benissimo trovarsi a loro agio, anzi meglio, in un moderno forno elettrico, solo di 100°C più caldo.
E allora, assodata l’incomprensibilità e l’inconsistenza delle motivazioni, concediamoci un po’ di malizia. Non è che nel forno elettrico la pizza non si possa fare: molti ci provano in tutti i cinque continenti e ci riescono pure; solo che il loro prodotto NON è la pizza napoletana, è una pizza e basta. A questo punto, anzi, è anche inutile usare la mozzarella di bufala, il pomodoro di San Marzano, l’olio extravergine di oliva; utilizziamo pure l’asettico surrogato di formaggio venduto in forma di mostruosi parallelepipedi, l’olio di semi di arachide, la salsa di pomodoro proveniente dalle coltivazioni africane. Sarà tutto molto igienico, standardizzato, impersonale, triste e deprimente. E non avremo il profumo della pasta dai bordi un po’ bruciacchiati dalla vampata della legna ardente, ma morbida e fragrante di aromi, di mozzarella, di basilico, di tutti i profumi della nostra terra. E non ci sarà bisogno dell’opera esperta e accorta del pizzaiolo, che dovrà lavorarla fino a renderla soffice e leggerissima, al punto che basti la fiamma di un solo minuto per poterla presentare splendida profumata e perfetta nel nostro smisurato piatto da pizza margherita.
Non pensavamo che l’Europa significasse la perdita della nostra identità e della nostra cultura, né che una società che accetta e impone i dannosi alimenti transgenici, gli orrori dei fast food e delle catene di montaggio alimentari, senza preoccuparsi minimamente della nostra salute, potesse invece mostrarsi così zelante e severa ai danni di un prodigio di semplicità e di genuinità, come è la pizza napoletana, assurta giustamente a simbolo e a bandiera della cultura gastronomica di un popolo. Ci si consenta almeno il sospetto di un pizzico, anzi di un bel po’ di malafede. E’ già successo per la pasta di grano duro, per l’olio di oliva, per il lardo di colonnata, per il formaggio di fossa – tanto per citare gli esempi più noti; ora anche la pizza napoletana, troppo semplice, troppo difficile, troppo sublime per poter essere imitata, dovrebbe, nelle intenzioni dei governanti europei, livellarsi verso il basso, verso quei simulacri che è possibile trovare in qualunque fast food degli States o dell’Australia, ma che di pizza portano, davvero ingiustamente e abusivamente, soltanto il nome.
Ma noi non ci stiamo! Va bene l’Europa della moneta unica, l’Europa senza confini, senza odi e senza rivalità, ma che sia l’Europa delle culture e delle individualità nazionali, non schiacciate e appiattite, ma armonizzate nel più ampio contesto globale. E la pizza napoletana – perdonateci l’ardire e l’accostamento blasfemo! – fa parte della nostra cultura come le opere dei nostri sommi artisti e poeti. Perché la pizza è un’opera d’arte e una poesia, che, a dispetto dei poco buongustai signori di Bruxelles, non si può imitare, ma soltanto godere e gustare.