(IL CERCHIO - novembre-dicembre 2009)
Capitolo 1 – Palinuro
Non so se sia corretto iniziare questa “corrispondenza dal Cilento” proprio da Palinuro. Cilento, Cis Alentum in latino, significa in realtà “al di qua dell’Alento” e il fiume Alento scorre circa 25 km a nord di Palinuro. Quindi per gli antichi romani Palinuro era al di là dell’Alento. Ma col tempo, come spesso avviene, i confini si sono in qualche modo spostati e oggi il Cilento comprende pressappoco tutta la parte meridionale della Campania, tra Agropoli a nord e Sapri a sud e il Vallo di Diano, l’antico lago prosciugato già in epoca romana e da allora trasformato in una fertile pianura, a est. Addirittura oggi, con la realtà sempre più attiva e presente del Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano, si tende ad allargare i confini del Cilento fino a comprendere il massiccio dei monti Alburni a nord e lo stesso Vallo di Diano, addirittura oltre i limiti del Parco, che esclude per definizione le aree più urbanizzate percorse dalle vie di comunicazione più importanti (vedi Figura 1). Guardando la mappa, si nota che Palinuro non è baricentrica rispetto al territorio cilentano e, per chi la conosce, non è nemmeno rappresentativa di tutta l’immensa varietà di paesaggi, di peculiarità geologiche, di fauna e di flora, di evidenze archeologiche storiche e culturali, che fanno del Cilento una delle aree più interessanti, anche se ingiustamente negletta, del variegato panorama del Bel Paese.
Eppure ci piace incominciare da qui questo viaggio ideale, forse in omaggio al leggendario timoniere di Enea, che, cedendo al dio del sonno che lo blandì con musica e dolci parole e poi lo fece cadere a mare, perse insieme con la vita l’occasione di partecipare ai destini di Roma futura, ma in cambio ebbe in sorte l’onore di dare il suo nome al promontorio fatale. Così si compì il fato che aveva predetto che Enea avrebbe raggiunto il Lazio solo grazie al sacrificio della vita di un troiano. In effetti, come raccontato nell’Eneide, Palinuro, da provetto marinaio, non annegò, ma nuotò fino a raggiungere la costa, dove venne ucciso dagli abitanti di Elea e lasciato insepolto sulla riva del mare. Per questo motivo, quando Enea scese agli inferi e incontrò il fantasma del suo nocchiero, questi lo pregò di cercarne il corpo e di dargli degna sepoltura, affinché la sua anima potesse riposare in pace. Ed Enea certo esaudì il desiderio dello sfortunato compagno, se è vero che ancora oggi sulla costa di Caprioli, in vista di capo Palinuro, sorge il cosiddetto cenotafio di Palinuro, che affascinò anche i rari viaggiatori del Grand Tour che osarono spingersi così a sud (vedi Figura 2).
Questa è la poesia della leggenda, contrapposta alla realtà, più prosaica: il cenotafio di Palinuro è un antico sepolcro di epoca romana e il nome Palinuro, di oscura etimologia, deriva forse dal greco e significa “dove il vento gira”. E proprio il vento, che gira e che a volte si accanisce selvaggio contro le imbarcazioni, ha fatto nascere la leggenda del luogo.E, a proposito di vento che gira, facciamo un salto di quasi tremila anni. Siamo al 25 settembre 1949 e dieci barche di pescatori, tutte rigorosamente a remi in tempi in cui il motore era un lusso impensabile, approfittano di una limpida mattinata settembrina per andare al largo a pescare con la coffa a pesci spada. Lasciano la spiaggia di sabbia chiara, chiamata pomposamente porto, nonostante sia a malapena protetta solo dai venti meridionali dalla breve punta del Fortino, e a forza di braccia si spingono al largo, accompagnate dalla brezza di terra del mattino, profumata di lentisco e di alloro. In ogni barca ci sono due pescatori, l’uno alla fatica dei remi, l’altro intento ad innescare la coffa, una lunga lenza dalla quale, come un lunghissimo festone, pendono ad intervalli regolari centinaia di pezzi di lenza più sottile con un amo al termine. Mentre uno dei due pescatori rema, l’altro infila su ciascuno degli ami un pezzo di alice. A due o tre miglia al largo, la coffa viene filata in mare facendo attenzione a non imbrogliarla e poi si aspetta per uno o due ore che il pesce spada abbocchi. Al mattino il tempo sembrava buono, ma ecco che nel pomeriggio, forse alle tre a giudicare dall’altezza del sole (nessuno dei pescatori possiede un orologio), il cielo improvvisamente si oscura e un vento freddo comincia a sferzare il mare, che si ribella ricoprendosi di onde e di spuma. I pescatori, spaventati, ritirano in fretta e furia le coffe e, faticosamente, intirizziti e fradici di acqua salmastra, si avviano a remi verso il porto. A terra, i loro familiari, preoccupati per l’improvvisa tempesta, si sono già riversati sulla spiaggia e, timorosi per la sorte dei loro cari, hanno preso la statua di Sant’Antonio da Padova, che già allora dimorava nella bianca chiesetta del porto, e l’hanno posta in riva al mare, quasi a cercare di placare le onde con lo sguardo del Santo e del Bambino tra le sue braccia. Certo le preghiere dovettero essere esaudite, perché dalla caligine che aveva offuscato il mare emergono finalmente le barche dei pescatori. La gioia è immensa, ma di breve durata: nella confusione generale un pescatore, Mauro “il Quartigliere” si accorge che le barche tornate sono nove e non dieci. Manca all’appelloil piccolo gozzo di Mauro “Cioccolatera” e di Salvatore “’o Zito”, che, attardatisi per ritirare la coffa forse imbrogliata, sono rimasti al largo, preda della tempesta. La disperazione delle donne spinge l’unico motopeschereccio di Palinuro, che quel giorno era rimasto in porto, ad avventurarsi nei flutti neri per la notte ormai sopraggiunta. Il “Quartigliere”, spinto dalla madre, sale a bordo, perché meglio ricorda la posizione della barca dispersa. Ma nel buio e nel vento è come cercare l’ago nel pagliaio. Improvvisamente, quando già, perse le speranze, il motopeschereccio sta per fare ritorno, agli occhi increduli del “Quartigliere” appare una luce lontana nel mare scuro. I soccorritori la seguono e raggiungono i due dispersi, stremati e rassegnati alla loro sorte. Essi vengono issati sul peschereccio e la loro barca trainata in porto. Inutile dire che il piccolo gozzo, ormai invaso dalle acque, non ha alcun lume a bordo. La luce miracolosa che ha guidato i soccorsi viene attribuita alla benevolenza di Sant’Antonio, santo miracoloso che aveva voluto salvare con un ennesimo miracolo due uomini di mare in balia degli elementi avversi. Da allora il 25 settembre è festa grande a Palinuro. Tutti gli anni, se il mare lo consente, nel primo pomeriggio, proprio all’ora della tempesta di tanti anni fa, la statua di Sant’Antonio esce dalla sua chiesetta bianca del porto e sale sul motopeschereccio che quell’anno ha ottenuto l’ambito onore di portare il santo. La processione di centinaia di barche di pescatori e di turisti lascia il porto al suono di una banda, imbarcata anch’essa su un motopeschereccio, e si dirige prima alla grotta Azzurra e poi punta decisamente verso Caprioli, dove si ferma per assistere ad un primo spettacolo pirotecnico. La via del ritorno verso il porto è scandita da altre “stazioni” con fuochi, fino allo spettacolo finale che accoglie le barche che rientrano nel porto.
Ma facciamo un altro passo indietro, questa volta di poco meno di duecento anni: contribuirà a farci capire almeno in parte il fascino del luogo. Nel lontano 1814, in un piccolo palazzo sul mare, ricavato da un’antica torre aragonese del 1500, soggiornò a Palinuro il re di Napoli Gioacchino Murat. Durante il suo breve soggiorno il re ebbe modo di constatare la pericolosità del capo Palinuro, così difficile da doppiare da parte delle imbarcazioni dell’epoca, non molto dissimili da quella antichissima di Enea. Per questo motivo egli ebbe l’idea di tagliare il promontorio alla base, dove l’altezza del terreno è di pochi metri, per creare un canale navigabile che evitasse il difficile passaggio del “Frontone”, come si chiama la parte del capo esposta al maestrale, alle fragili imbarcazioni del tempo (vedi Figura 4). Di questa idea, che il precipitare degli eventi culminati con l’esecuzione di Gioacchino Murat impedì di mettere in pratica, ci dà notizia in un libro scritto nel 1882 dal medico geologo Cosimo De Giorgi, che percorse a piedi il Cilento allo scopo di tracciarne una mappa. Nel testo si legge: “A Gioacchino Murat era venuta in mente la bell’idea di tagliare l’istmo delle saline di Palinuro e così congiungere con un canale e con un tramite più diretto la marina di Palinuro con quella della Molpa. E lo avrebbe fatto se la Parca non lo avesse incolto per via. Ma quel progetto dovrebbe studiarsi oggi di bel nuovo. Il canale non sarebbe più lungo di 1500 metri; il taglio delle sabbie incoerenti sarebbe facilissimo, e le rupi calcaree del promontorio potrebbero fornire la pietra pei rinfianchi laterali del canale. Nel punto della massima altezza della trincea non supererebbe i 53 metri.” (C. De Giorgi – Viaggio nel Cilento – Galzerano Editore – Casalvelino Scalo). E’ chiaro che oggi l’opera non avrebbe alcun senso, ma la notizia serve a confermare l’importanza che in passato si dava a questo punto saliente della costa cilentana.
La citazione del De Giorgi ci dà l’opportunità di ricordare la Molpa, collina a sud di capo Palinuro circondata da due fiumi, il Lambro a nord ed il Mingardo a sud. Proprio per l’abbondanza di acqua dolce e per il ridosso dai venti di maestrale, la marina della Molpa era uno degli ancoraggi preferiti dalla flotta imperiale romana, che utilizzava l’approdo per rifornirsi di acqua dolce. Ma il luogo ha una storia molto più antica: scavi archeologici iniziati nel 1939 su questa collina portarono alla luce delle tombe arcaiche a inumazione ed un villaggio con case con base in pietra e alzata in legno. Fu trovata inoltre una moneta d’argento datata nel 530 a.C. con l’immagine di un cinghiale in corsa e la dicitura in lettere greche arcaiche PAL MOL (Palinuro Molpa).Siamo così tornati al passato remoto, quello di Enea, per intenderci, ma non basta. Palinuro ha una storia molto più antica: proprio ai piedi della Molpa c’è una grotta lambita dal mare, nota fin dall’antichità col nome di Grotta delle Ossa. In essa furono trovate e sono ancora visibili, inglobate nella roccia calcarea, miriadi di ossa di animali risalenti all’età della pietra. Allora il mare era più lontano e davanti alla Molpa si stendeva una pianura. La particolare forma tondeggiante e scoscesa della collina la fece evidentemente scegliere dagli uomini preistorici come un grande altare per sacrifici. Le ossa riposte nella grotta ne sono l’antica testimonianza.
Ora che l’estate è finita Palinuro è ritornata agli antichi silenzi, rotti soltanto dal suono dei campanacci delle greggi. Sono suoni antichi che ci ricordano come questo luogo sia gravido di storia e di testimonianze del passato. Basta un attimo per soffermarsi a leggerle e per restarne ammaliati per sempre.
Paolino Vitolo
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