(SCRIVONAPOLI - 27 febbraio 2014)
Per essere onesto devo fare innanzi tutto una confessione: io sono un tifoso e per di più della specie peggiore, ciecamente innamorato della mia squadra, in qualunque frangente e in qualunque occasione, sia che vinca sia che perda, sia che giochi nella Champions League sia che giochi in serie C. E la mia squadra è il Napoli.
L’amore nacque, come spesso accade, quando ero bambino, purtroppo ben più di mezzo secolo fa, e non vivevo a Napoli, ma a Spoleto, una splendida cittadina dell’Umbria. E l’amore fu tanto più forte quanto più dovetti sopportare i lazzi dei miei compagni di scuola, del tipo “vedi Napoli e poi muori per la puzza che ci trovi”. Come vedete, dal secolo scorso non è cambiato niente.
Tornato a Napoli cominciai a seguire la squadra più da vicino, spesso come abbonato del settore distinti, spesso anche nelle disagiate trasferte dei treni speciali. E vidi così il Napoli di Sivori e Altafini, il Napoli di Cané e di Iuliano e Montefusco e poi, apoteosi!, quello di Maradona. Non abbandonai la squadra neanche negli anni bui della serie C e poi nella faticosa risalita dalla B alla A. In uno dei momenti di massimo sconforto, conobbi l’umiliazione di una sconfitta in serie C dalla Torres a Sassari con una doppietta di un certo Felice Evacuo!
Bene, dopo questa lunga e completa confessione, veniamo all’argomento principale. Pur essendo irrimediabilmente tifoso, ho sempre avuto una visione ingenua e pura dello sport. Una visione, per intenderci, alla De Coubertin, di uno sport basato sulla lealtà, sull’agonismo volto non alla sopraffazione dell’avversario, ma al superamento dei propri limiti; il tutto in maniera assolutamente disinteressata. Qualcuno mi fece notare in passato che forse il calcio non è proprio ciò che può definirsi uno sport olimpico. Per vincere e per primeggiare c’è bisogno di fior di giocatori, che si fanno pagare molto, c’è bisogno di strutture adeguate e di organizzazione. E tutti questi fattori sono prevalenti sul concetto della purezza dello sport com’era inteso nell’antica Grecia, quando il premio dell’atleta vincitore era una bella corona di alloro.
Benissimo, lo sappiamo, tutto questo ci sta. Il calcio non sarà uno sport purissimo all’antica, ma ha comunque delle regole, a volte anche severe, ed è anche un bello spettacolo. È ovvio quindi che, per raggiungere l’eccellenza, richieda tutti quegli investimenti che lo allontanano dall’utopia della purezza olimpica. Investimenti che tuttavia non bastano, se non sono accompagnati da sagacia imprenditoriale, correttezza, lungimiranza e rispetto delle regole. Per citare un esempio pratico, guarda caso legato alla mia squadra del cuore, il Napoli vinse il suo primo scudetto non soltanto per la grandezza di Maradona, ma anche per la bravura di personaggi come Italo Allodi, che amava il calcio al punto di rimanere distrutto e addirittura morirne, quando nel 1986 scoppiò lo scandalo del calcioscommesse. E oggi il Napoli si trova a lottare ai vertici della classifica non perché il presidente De Laurentiis abbia speso più di certi predecessori, che pure dilapidarono inutilmente dei capitali, ma perché ha saputo investire con saggezza e spirito imprenditoriale.
Benissimo, se queste sono le regole, capiamo perfettamente perché alcune squadre riescano comunque a primeggiare. Le note dolenti arrivano quando quelle regole vengono in qualche modo travalicate. E purtroppo in Italia c’è qualche società calcistica che ha raggiunto i vertici rispettando quelle regole, ma continua a vincere anche quando non lo merita, semplicemente abusando della propria posizione dominante. In passato l’hanno fatto anche altre squadre, ma oggi l’esempio classico di questa aberrazione si chiama Juventus. Tranne qualche raro incidente di percorso, la Juventus in questo campionato vince sempre, anche quando non lo merita. Guardiamo l’ultima partita, il derby col Torino. La Juventus va in vantaggio per prima, ma poi l’arbitro e i suoi assistenti non vedono un chiaro fallo da rigore ai danni del Torino e la partita finisce 1 a 0. Ingiustamente. Andiamo più indietro, al 3 a 0 sul Napoli allo Juventus Stadium. Il primo goal contro il Napoli era in lampante fuori gioco, visto da tutti, ma non dalla terna arbitrale; alcuni falli da rigore in area juventina non vengono nemmeno presi in considerazione. Risaliamo infine all’agosto 2012, Supercoppa a Pechino. Il Napoli vince 2 a 1, ma poi alcune magie dell’arbitro Mazzoleni fanno sì che la coppa cinese venga assegnata alla Juve, che da allora io chiamo Rubentus.
La chiamo così, sia ben chiaro, da becero tifoso, non perché io pensi che paghi gli arbitri o qualcun altro per vincere, ma perché, facendo valere la sua influenza e il suo potere a tutti i livelli, ruba qualcosa al calcio, che per colpa sua non è più quello sport puro e meraviglioso dove vince il migliore (in tutti i sensi che ho detto prima), ma dove vince il più potente o, meglio, il più prepotente.