(IL MONITORE - gennaio 2002)
Apprendiamo dai quotidiani che il senatore a vita Giovanni Agnelli, dalla cattedra di palazzo Giustiniani in Roma, dove ha tenuto una conferenza sulla globalizzazione, ha elogiato a chiare lettere il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, perché, assumendo l’incarico di ministro degli Esteri “si è preso un forte impegno in direzione dell’Europa”. E il presidente onorario della FIAT non si è fermato qui: egli ha anche elogiato il governo che “sul piano dello sviluppo economico ha mostrato in questi mesi di saper mettere a frutto l’opportunità nuova, mai sperimentata nel dopoguerra, di un ampio mandato elettorale che durerà per tutta la legislatura.” (tra virgolette le testuali parole dell’Avvocato con lettera maiuscola). Chi si aspettava soltanto delle tiepide parole di scusa per l’imperdonabile gaffe del “paese dei fichi d’India”, sarà rimasto oltremodo stupito per l’inattesa discesa a Canossa del padrone storico della FIAT e, di conseguenza, per la genuflessione della grande industria italiana alla maestà del Cavaliere. La profferta di pace e di sottomissione del senatore Agnelli è tanto più forte e significativa, quanto più irritante deve essere stata per lui l’uscita di scena del suo uomo Ruggiero. Per il quale e per la cui onestà – intendiamoci! – nutriamo la massima stima. Il suo unico errore, dovuto forse al fatto di non essere un politico, è stato quello di non capire in tempo che, se uno fa il ministro degli Esteri di un governo, qualunque esso sia, deve scordarsi di fare il consulente aziendale, ma deve unicamente lavorare in sintonia con il governo stesso. Salvo poi a dimettersi, in caso di disaccordo con il presidente del Consiglio, che è il suo unico e vero capo.
Il buon Agnelli non è uno stupido: questo è più che evidente. Ha evidentemente annusato la direzione del vento e ha deciso di prendere le distanze dai suoi vecchi amichetti della sinistra, quelli che – per intenderci – gli permettevano di pagare le sue perdite a suon di soldi pubblici della cassa integrazione o di aprire e chiudere fabbriche a suo piacimento, dovunque fosse più conveniente, fregandosene altamente dei problemi occupazionali delle terre che decideva di abbandonare. In cambio l’Avvocato assicurava alla sinistra un ricco serbatoio di voti di malcontenti, pronti ad ubbidire a tutti i diktat dei sindacati e dei partiti rossi – chiedo scusa! – di sinistra. Per chi avesse ancora dei dubbi sulla coerenza politica degli Agnelli, vorrei ricordare come, durante il Ventennio, essi fossero più che compromessi col regime fascista (non col Fascismo, per carità! Quello è un’altra cosa).
Ma torniamo ai nostri giorni! Nel momento in cui tutta la stampa internazionale, anche quella politicamente ostile, comincia a parlar bene di Berlusconi e persino l’arrabbiato Le Figaro bacchetta il proprio ministro della Cultura madame Catherine Tasca, per aver auspicato che il premier italiano non vada a Parigi per l’inaugurazione del Salone del Libro (dove addirittura l’Italia è ospite d’onore), anche Giovanni Agnelli non poteva fare a meno di allinearsi. Non dimentichiamo che egli, come del resto tutti gli esponenti della grande industria, appartiene a quel movimento parapolitico che, con dizione grossolana ma efficace, viene definito “pagnottista”. Anche se di ben altro che pagnotte si ciba l’Avvocato.
Comunque, qualunque sia stato l’impulso che ha spinto il senatore Agnelli, e con lui la grande industria italiana, a genuflettersi al governo Berlusconi, la cosa ci riempie di gioia e di soddisfazione. Perché finalmente questi signori hanno preso atto della volontà dell’elettorato, del popolo che lavora e cerca di migliorare la sua vita, dei piccoli imprenditori cui i governi di sinistra non hanno regalato né cassa integrazione né agevolazioni pubbliche, di tutti quelli che sono stati tartassati dalle tasse e dalle ingiustizie, e che oggi vedono finalmente aprirsi uno spiraglio di luce, di benessere e di giustizia sociale. E, se l’ha capito Agnelli, che di fiuto ne ha da vendere, siamo certi di essere sulla strada giusta.