(IL MONITORE - marzo 2002)
Lo scontro sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, le manifestazioni degli studenti per una scuola “con gioia ma senza Letizia” (Moratti, naturalmente), le indignazioni per una legge barbosamente tecnica come quella sulle rogatorie internazionali, lo stracciamento di vesti per il conflitto di interessi che la nuova legge (la prima e l’unica, per la verità) non riuscirebbe a risolvere, i comizi improvvisati di registi sinistrorsi che si scoprono improvvisamente una vocazione (e una carriera – speriamo) da tribuni della plebe, tutto quello che, in una cacofonia nuova di zecca, si chiama “antiberlusconismo” non sono soltanto manifestazioni di rabbia e di livore di una parte che ha inequivocabilmente perduto le elezioni politiche dello scorso anno. C’è qualcosa di più, qualcosa di più profondo e il governo di centro-destra farà bene a tenerne conto. Il suo compito non è soltanto quello di governare bene, di mantenere le promesse e rispettare i programmi (scusate se è poco!), ma anche combattere e sradicare dalla nazione questo cancro, questo male oscuro, che per più di cinquant’anni il regime che lo ha preceduto ha pervicacemente inoculato nella società italiana.
Negli anni trascorsi ci fu un modello di sviluppo e di comportamento, che la storia e la realtà mondiale ci hanno costretto ad abbandonare, che prevedeva che tutti indistintamente, senza merito e senza fatica, avessero diritto ad un minimo sostentamento da parte dello Stato. Purché si fosse completamente proni ai dettami del regime, pronto ad elargire i suoi favori a chi contribuiva a mantenere in moto perpetuo la perfetta e malefica macchina del sistema, esempio vivente di ciò che, in due parole, si chiama “circolo vizioso”. Il merito, la produttività, la capacità del singolo potevano tranquillamente andare a farsi friggere; contavano solo l’appartenenza alla parte giusta, il protettore giusto, il capo bastone giusto (mi si perdoni la terminologia mafiosa). L’impresa in generale era vista come il nemico da mortificare e da tenere a bada, la piccola impresa in particolare era satana, nemico dei buoni lavoratori, da ostacolare in tutti i modi, nonostante essa costituisse anche allora il nerbo dell’economia nazionale. Il sogno di ogni bravo italiano era il posto fisso, la carriera codificata su traguardi temporali certi, senza sorprese negative, ma nemmeno positive, senza possibilità di mettersi in luce con prestazioni qualitative, che anzi erano viste con sospetto dalla massa. Basti ricordare l’equivoco in cui nel ’94 caddero tanti italiani delusi dal primo governo Berlusconi, che aveva promesso “100.000 posti di lavoro”, e non capirono che non si trattava di posti, ma di lavoro.
L’elezione a larga maggioranza dell’attuale governo di centro-destra ha però dimostrato che molto più della metà degli italiani ha capito qual’è la strada da imboccare per raggiungere l’agognato benessere e la meritata tranquillità. E’ ovvio che non si possa essere tutti d’accordo e che i nostalgici dello stato assistenziale e del potere, basato sulla perenne povertà del popolo, sussultino di rabbia e di bramosia per il potere perduto. E’ ovvio che i mediocri e gli incapaci abbiano nostalgia di un sistema, in cui bastava dichiarare (e dimostrare) la propria appartenenza alla parte giusta, per sopravvivere più che bene. E’ ovvio che i politicanti di mestiere, incapaci di qualsivoglia attività produttiva, cerchino con tutte le forze di ripristinare il circolo vizioso che gli italiani hanno democraticamente spezzato.
Proprio per questo, il governo di centro-destra deve stringere i denti e lottare. Non si tratta soltanto di governare bene, ma di combattere e vincere uno scontro epocale, di ricacciare nell’oblio i fantasmi di un passato di ingiustizie e di prepotenze, fantasmi che non vogliono e non possono rassegnarsi alla loro sconfitta. Gli italiani, quelli veri, sapranno combattere, anzi lavorare, perché essi non ritornino più.