(IL CERCHIO - aprile 2002)
Conobbi Francesco piuttosto tardi: soltanto ventisette anni fa. Non fu mio compagno di scuola (era troppo giovane per esserlo), ma, quando il comune amico Uccio me ne parlò, fu come se lo fosse stato; da sempre.
Era la primavera del 1975 e stavo partendo per Stoccolma. Allora lavoravo in IBM, che a quei tempi era veramente la grande IBM, ed ero stato invitato a partecipare alla “Convention” annuale dei circa cinquecento migliori dipendenti della società, che quell’anno si sarebbe appunto svolta nella splendida perla del nord. Ero emozionato ed entusiasta, ma Uccio involontariamente rabbuiò non poco il mio stato di grazia, parlandomi del povero “camerata Cuomo” (come usava scherzosamente chiamarlo), che, essendo stato operato di una neoplasia al cervello dal famoso professore svedese (appunto) Olivecrøna, aveva bisogno di medicine particolari, che si trovavano più facilmente in Svezia.
Non ebbi tempo di comprare le medicine (il programma serrato della Convention me lo impedì) e tornai a Napoli a mani vuote, ma Francesco non me ne volle, né io me ne preoccupai più di tanto: l‘ottimismo della giovinezza ci faceva credere che il suo male fosse ormai sconfitto definitivamente. E ci buttammo a capofitto nella vita, ognuno per la sua strada, ma incontrandoci spesso, per riprendere fiato nei momenti difficili, per confortarci reciprocamente con la forza delle nostre idee e della nostra fede, oppure, più semplicemente, per andare al mare, a una festa, a un comizio di Almirante, a una partita a poker con gli amici.
Come spesso si dice, “passò una vita”. Passò impercettibilmente, senza scosse, senza mai contrasti, in una comunione di intenti e di ideali a dir poco invidiabile. Passò, e sembrava che non dovesse mai finire. Nel 1994, nel fermento di iniziative e di entusiasmo che seguì alle prime affermazioni della Destra nella politica nazionale e anche cittadina, mi lasciai convincere a candidarmi per il consiglio comunale di Napoli insieme con Alessandra Mussolini. Fu proprio Francesco che mi aiutò, mi portò per mano come un fratello maggiore e mi fece comprendere, a me sempre svagato e spesso fuori della realtà, i difficili meccanismi della politica. Fu proprio in quel periodo che fiorirono i cosiddetti circoli di ambiente di Alleanza Nazionale e Francesco divenne il presidente del circolo “Alleanza Culturale”, che, come molti lettori ricorderanno, fu in qualche modo il germe da cui ebbe origine “Il Cerchio”. Come presidente di circolo, Francesco andò a Fiuggi, al famoso congresso in cui nacque la “svolta” di Alleanza Nazionale, ma proprio là, mentre era impegnato a dare il suo contributo per la creazione della Destra del futuro, il male che lo aveva afflitto quand’era poco più che adolescente, rialzò la testa, quasi a indicare che la tregua concessa stava per finire.
La vita era stata ingrata con Francesco, ma, quasi a risarcirlo della sfortuna di un male precoce e inguaribile, gli aveva concesso una tregua di più di vent’anni, un periodo splendidamente intenso, come una lunga giovinezza, negata alle persone “normali”, ma semplicemente dovuta ad un uomo come lui.
Francesco ci ha lasciato l’anno scorso, in punta di piedi (e non è retorica), scegliendo proprio il momento in cui la città è deserta: ferragosto. L’egoismo del nostro amore avrebbe voluto che rimanesse con noi, anche se, in verità, egli, il Francesco vero, era andato via più di un anno prima, con l’inizio delle cure e degli interventi per combattere il ritorno di un male che non perdona. Io preferisco ricordarlo quell’ultima sera del 17 gennaio 2000 a Sant’Antonio Abate, quando, come ogni anno, accendeva il falò di “Sant’Antuono” nella villa rurale, la “masseria”, dove il padre, tanti anni prima, aveva scoperto una villa romana inghiottita dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.c. e, con grande generosità, aveva contribuito a sue spese a disseppellirla, sottraendola addirittura alla sua proprietà. Allora era ancora il Francesco che tutti ricordiamo e a cui abbiamo voluto bene.
Pochi giorni fa, in occasione del mio compleanno, per la prima volta Assunta, la splendida moglie di Francesco, il cui amore è stato forse il più bello dei “risarcimenti” che la vita gli abbia concesso, Assunta – dicevo – per la prima volta è venuta da sola. Avevamo gli occhi lucidi e un groppo alla gola, ma poi Assunta ha voluto darmi – dono stupendo – un ricordo indelebile di lui: due pietre della villa romana, due frammenti di affresco conservati negli anni. Due pietre che mi ricorderanno che egli non è mai morto e che vivrà nel mio cuore per sempre.
Francesco, a noi!