Paolino Vitolo, consulente informatico, webmaster, ITC 	consultant, giornalista, scrittore.Fratelli d'Italia
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(IL MONITORE - giugno 2002)

Lunedì 3 giugno 2002, ore 13,30: la nazionale italiana di calcio debutta ai Mondiali di Corea-Giappone. L’Italia si ferma, le attività produttive si bloccano, persino a piazza Affari cessano le contrattazioni di borsa; e il telegiornale recita questa notizia, di per sé ferale, con l’allegria e la condiscendenza con cui si annuncerebbe un divertente scherzo goliardico. Tutti gli italiani sono incollati davanti al televisore; i campioni azzurri entrano in campo e si schierano per la cerimonia degli inni nazionali, e così fanno anche i poveri giocatori ecuadoregni, compatiti come le vittime sacrificali del momento. Attacca per primo l’inno di Mameli e tutta l’Italia televisiva freme di rinnovato patriottismo; e i campioni? Che cosa fanno gli undici assi azzurri schierati a centro campo? Tutti impassibili, con la bocca ermeticamente chiusa: undici perfette facce di culo (absit iniuria verbis: questa parte del corpo umano, ancorché stupenda se il corpo di appartenenza è femminile, soffre di una certa costituzionale inespressività). Si salva solo qualche giocatore della panchina, la cui bocca si muove in accordo con le parole dell’inno nazionale.
L’episodio infastidisce il popolo televisivo quasi all’unanimità, ma poi l’Italia vince con un rotondo 2 a 0 e tutti, o quasi, sono pronti a dimenticare. Non così ad esempio Bruno Vespa, il compassato conduttore televisivo, che nella trasmissione serale di commento ai mondiali si dimostra particolarmente arrabbiato, tanto da meritarsi addirittura l’epiteto di “Che Guevara”. Incredibile a dirsi!
Lode a Bruno Vespa, che è riuscito ad esprimere con corretta veemenza la rabbia e il disappunto che tutti gli Italiani (quelli con la lettera maiuscola) hanno provato nel vedere quegli undici giovani, coccolati e viziati, miliardari sol perché bravi a rincorrere un pallone, rifiutare caparbiamente di intonare ad alta voce l’inno di quella Patria, che li ha privilegiati e che li adora. Così non hanno fatto i poveri giocatori dell’Ecuador, che, pur non essendo in realtà tanto male, guadagnano forse la centesima parte di quello che intascano i nostri “campioni”. Ma è inutile prendersela con questi ragazzi: la colpa è nostra. Essi sono il frutto di mezzo secolo di regime, in cui ci è stato insegnato che l’amor di patria è fuori moda, anzi politicamente scorretto; che il tricolore puzza di “fascismo” ed è lecito sventolarlo al massimo a una partita di calcio (appunto); che l’inno di Mameli è brutto, anzi cafone, quasi quanto l’Inno del Piave o – anatema! – Giovinezza. Mezzo secolo in cui i concetti di dovere, onestà, rettitudine, lavoro, correttezza, famiglia sono stati ridicolizzati e disprezzati; mezzo secolo in cui si è costruito un nuovo ideale di vita: poco lavoro (meglio niente, se possibile) e molti soldi, e ancora successo e fama a tutti i costi.
I giocatori, che non hanno voluto e non vogliono cantare “Fratelli d’Italia” (ne hanno fatto una questione di principio), sono degli uomini arrivati, dei fortunati, degli esempi cui i giovani d’oggi anelano. Ma purtroppo, anche se è indubbio che, per raggiungere la loro posizione, non basta la fortuna, ma occorre un duro lavoro, essi non sono in grado di dare l’esempio che potrebbero e dovrebbero dare. Essi sono il frutto di cinquant’anni di politica di sinistra, che – grazie a Dio – sono finiti. Dobbiamo recuperare, ce la faremo: un tempo neanche troppo lontano nemmeno la civile protesta di un Bruno Vespa sarebbe stata possibile. Segno che le cose stanno cambiando in bene.
Auguri, Italia, e non soltanto per i mondiali!


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