(IL MONITORE - giugno 2004 - Pubblicato col titolo: "Dichiariamo guerra al terrore")
Nessuno si ricorda più dei tre ostaggi italiani, che, dagli ormai lontani giorni della Pasqua, sono rimasti nelle mani dei guerriglieri iracheni. Forse abbiamo dimenticato persino il nome del quarto, quel Quattrocchi che fu subito barbaramente trucidato e che seppe morire da eroe e – aggiungerei senza falsa modestia – da vero italiano. Altri drammi e altre morti ci incalzano, come quella – recentissima di dolore e di commozione – del giovane caporale del Reggimento dei Lagunari “Serenissima”, Matteo Vanzan. Drammi e morti a cui ormai facciamo fatica a dare un significato, amareggiati come siamo nel constatare che, come al solito, la ragione politica col suo squallore prevale sulla logica e sul buon senso. Il buon senso, che sembra ormai prerogativa della sola cosiddetta gente comune, ci dice sempre più insistentemente che in Iraq è in atto una guerra, che, come tutte le guerre del nuovo millennio, è selvaggia e senza regole; e alle guerre, soprattutto se selvagge e senza regole, non si partecipa in missione di pace. Quindi, dire che le truppe italiane a Nassiriya sono in missione di pace è un’ipocrisia politica, cioè una bugia. Con questo non vogliamo assolutamente sposare la tesi dei “panciafichisti” (mai questo vocabolo coniato dal Duce fu più appropriato), capeggiati dall’ex-boiardo DC Prodi, il quale, dimessa la maschera di presidente europeo, sta cavalcando per motivi squallidamente elettorali la tigre, anzi la pecora, del ritiro dall’Iraq senza condizioni. La nostra idea è molto diversa, anzi opposta: se si è in guerra, che la si combatta con tutti i mezzi e con le migliori armi disponibili, senza le pastoie di regole d’ingaggio ridicole, che fanno solo il gioco dei terroristi. E con questo non deprechiamo affatto i sacrosanti principi che impongono di non colpire la popolazione civile o gli obiettivi “umanitari” come gli ospedali, ma piuttosto il fatto che gli italiani siano armati poco e male, in nome naturalmente dell’ipocrisia politica e del cerchiobottismo all’italiana, che ha permesso sì l’invio di truppe in Iraq, ma per fare la pace e non la guerra. È bene ricordare un argomento volutamente trascurato: le armi che gli italiani hanno portato sul teatro di guerra sono obsolete e insufficienti. Le autoblindo Centauro in dotazione costringono i soldati a rimanere allo scoperto ed hanno una corazzatura insufficiente per resistere ai micidiali razzi RPG dei terroristi; in queste condizioni è praticamente impossibile rintuzzare gli attacchi di quattro straccioni ben informati dalle loro quinte colonne infiltrate sul nostro territorio nazionale, che hanno capito che l’Italia, con le sue divisioni politiche, è il ventre molle della coalizione e che quindi ci attaccano con crescente virulenza. Alla faccia della missione di pace! Sarebbe meglio a questo punto utilizzare le potenti armi moderne di cui siamo dotati: il carro leggero Dardo, con torretta corazzata e cannone da 600 colpi al minuto; il carro pesante Ariete, con corazza resistente ai razzi RPG e cannone da 120 mm a lunga gittata; l’elicottero Mangusta, blindato e dotato di missili con gittata di 3000 metri. Questi mezzi avrebbero innanzi tutto una funzione dissuasiva e farebbero comprendere ai terroristi che l’Italia non ha nessuna intenzione di abbandonare il paese, la cui maggioranza vuole la pace, nelle loro mani insanguinate.
Questi sono i fatti, tutto il resto sono chiacchiere da politici in campagna elettorale (purtroppo in pieno svolgimento). È giusto limitare l’uso delle armi all’indispensabile, per non infierire sulla popolazione inerme e desiderosa di pace, che è la maggioranza in Iraq come nel resto del mondo, ma è anche giusto mostrare tutta la nostra forza, quando è necessario. È giusto chiedere l’intervento dell’ONU (anche se spesso chi lo fa finge di ignorare i limiti e le impotenze congenite di questa organizzazione), ma sarebbe criminale ritirarsi in un momento come questo. Non dimentichiamo che quando, in circostanze analoghe, l’ONU ordinò il ritiro immediato di tutti dal Ruanda, a quest’ordine seguì una guerra civile da 800.000 morti. Se ci ritirassimo adesso, che la missione di pace sembra sempre più una missione di guerra, dimostreremmo a noi stessi e al mondo che non siamo andati in Iraq per aiutare la restaurazione della pace e della democrazia in quello sfortunato paese, ma unicamente per facile opportunismo e per cercare vantaggi economici e politici. È vero, la democrazia non è un bene che si riesce ad esportare, ma proprio per questo ha bisogno di molto aiuto perché i suoi teneri germogli possano sperare di irrobustirsi. E poiché la maggioranza della popolazione irachena, che ha tanto sofferto in passato, la desidera come ogni popolo civile, noi abbiamo il dovere di aiutarla, con tutti i mezzi. E poiché i nemici della democrazia in Iraq sono quegli stessi assassini, che seminano la morte in nome di una malintesa religione, che mortificano le proprie donne, che negano ogni cultura, che arrivano alla suprema vigliaccheria di suicidarsi per trascinare degli innocenti nella loro stupida morte, è giusto e doveroso combatterli con tutte le nostre forze. Fino alla loro completa distruzione.