(IL MONITORE - aprile 2005 - Pubblicato col titolo: "Terzo mondo e tecnologie")
I cosiddetti “no-global” osteggiano la globalizzazione, perché, a loro dire, un mondo più ristretto e con confini più evanescenti danneggerebbe i paesi più poveri, cioè il terzo mondo, che, venendo a contatto con i più ricchi, verrebbero da questi schiacciati e condannati ad una miseria ancora più grave ed irrimediabile. Questo ragionamento è l’estrema conseguenza della filosofia marxista, che vede nell’appiattimento e nella mediocrità l’unico modo per garantire i “diritti” e la sussistenza di tutti, anche a costo di soffocare la natura umana che invece tende alla conquista, alla scoperta, al miglioramento; in una parola: al progresso. Da tempo sappiamo che il marxismo, come filosofia politica, è fallito, superato e condannato dalla storia: la stessa Cina, che a parole dovrebbe essere addirittura un subcontinente marxista, in effetti è una delle più pure espressioni del capitalismo, cioè dell’anti-marxismo per eccellenza. E proprio l’esempio della Cina, come pure di altri subcontinenti asiatici (ci riferiamo in particolare all’India), ci fa capire che il marxismo sia fallito anche come filosofia economica. Proprio la globalizzazione, che i post marxisti di casa nostra vedono come il fumo negli occhi, ha decretato questo fallimento. Quando la Cina, con il suo miliardo e mezzo di abitanti, e l’India, con il suo miliardo, erano lontane, potevamo ritenere che queste immense popolazioni potessero rimanere prigioniere della loro povertà, confinate in una condizione di inferiorità permanente, che, con la superba sufficienza dei ricchi, potevamo considerare da “terzo mondo”. Oggi invece, con i progressi delle comunicazioni, dell’elettronica, di internet, che noi stessi abbiamo creato, Cina ed India sono vicine. Ed hanno invaso il nostro mercato con prodotti di alta qualità e a basso costo, perché costruiti da gente abituata a lavorare per un tozzo di pane e non viziata da secoli di rivendicazioni e di rivoluzione industriale. Ma non solo. Se la Cina ci inonda di prodotti buoni quanto i nostri e spesso addirittura migliori, ma molto più convenienti, l’India ci inonda invece di “cervelli” di prima qualità. Gli IIT, cioè gli Indian Istitute of Technology, come si chiamano gli ormai numerosi politecnici indiani, sfornano ogni anno migliaia di eccellenti ingegneri, disposti ad accontentarsi di salari mensili di un milione di vecchie lire (che peraltro in India consentono una vita più che agiata), i quali, grazie a internet, non hanno bisogno di spostarsi dal loro paese per produrre il software richiesto dai colossi informatici internazionali. Questi fenomeni hanno instaurato un processo irreversibile: i posti di lavoro diminuiscono nel “primo mondo” ed aumentano nel “terzo mondo”. Non è difficile prevedere che, se non riusciremo ad invertire questa tendenza, i ruoli si possano invertire a nostro danno, purtroppo anche a causa di una serie di fattori concomitanti che ci danneggiano, come il crescente costo dell’energia, le cui principali fonti sono proprio nei paesi che insistiamo a considerare arretrati o la nostra natalità in continuo calo, che ci espone all’invasione dei popoli meno fortunati, ma più prolifici. Urge trovare una soluzione al problema, non per restaurare le obiettive ingiustizie del passato, ma per evitare che le ingiustizie si invertano ai nostri danni. Ma nessuna soluzione è possibile se i popoli che si ritengono “civili”, non sapranno ritrovare l’unica più grande forma di civiltà, il cui nome è semplicemente “concordia”. Non abbiamo rimpicciolito il mondo ed abbattuto i confini per accrescere i contrasti e le invidie, ma per essere più uniti e più vicini.