(IL CERCHIO - giugno 2005)
LETTERE
DALL'ABRUZZO AL CILENTO E OLTRE
Caro Direttore,
la suggestiva immagine della “Cultura dell’osso” di Manlio Rossi Doria non può limitarsi all’Italia centrale e all’Abruzzo. Sarebbe infatti molto strana e fuorviante l’immagine di un corpo la cui “polpa” avesse un “osso” a sostenerla soltanto nella parte superiore, lasciando molle e incoerente il resto. Se così fosse ci sarebbe da chiedersi: è dunque proprio vero che Cristo si è fermato ad Eboli o addirittura ancora più a nord, esasperando il titolo del famoso scritto autobiografico di Carlo Levi? Ad un’analisi superficiale sembrerebbe di sì; dimenticati i remoti splendori della Magna Grecia, soffocati da secoli di oscurantismo medioevale, quando, lontana e indifesa provincia di un impero bizantino troppo lontano e distratto, il Sud subiva le scorrerie di pirati e di eserciti barbarici, i popoli immemori di un passato grandioso si ritirarono sulle montagne, sull’osso, appunto, in cerca di una stentata sopravvivenza. Unico lume a rischiarare quell’oscurità, la presenza di monasteri e di cenobi, soprattutto di monaci basiliani provenienti dalle terre balcaniche, come testimoniano alcuni nomi sopravvissuti fino ad oggi: San Giovanni a Piro (da Epiro) e Celle di Bulgheria (da Bulgaria), Eremiti, Laureana, e così via.
Passato il Medio Evo, il rifiorire della cultura, delle scienze, dell’ottimismo del Secolo dei Lumi fecero riscoprire il Sud. Le più nobili e facoltose famiglie europee, godendo di mezzi e possibilità non indifferenti, non ritenevano completa l’educazione dei loro rampolli maschi, se essi non avevano fatto il cosiddetto “Grand Tour”, cioè il viaggio alla riscoperta delle origini culturali dell’Europa, condito dall’attrattiva della dolcezza del clima, ma anche del pittoresco e del disagio di un viaggio più che avventuroso in luoghi, che, al di là dei ricordi delle glorie passate, ristagnavano in un oggettivo degrado. Fu così che Goethe, per citare il nome più famoso, fu affascinato dal “paese delle rose”, ma anche lui, come quasi tutti gli altri, non osò spingersi oltre i templi di Paestum, considerati unanimemente le colonne d’Ercole d’Italia. Più a sud di queste, solo briganti, miseria, “gente disperata” e pericoli troppo grandi anche per un audace e avventuroso viaggiatore. Eppure, qualcuno che osò valicare le colonne d’Ercole ci fu. Nel 1838 un inglese diciannovenne, pittore e scrittore, accompagnato da un amico, decise di fare a piedi il viaggio da Roma a Palermo, non imbarcandosi a Salerno per saltare tutto il Sud, ma proseguendo via terra fino alla meta. Un viaggio, come è facile comprendere, di quelli che portano a scoprire se stessi oltre che naturalmente i luoghi, i quali, vera “terra incognita” per il giovane inglese, come per gli stessi abitanti di Napoli capitale del Regno delle Due Sicilie, non poterono che lasciare una traccia indelebile nel suo cuore. Arthur John Strutt – era questo il nome del giovane viaggiatore – usava scrivere una lettera ai suoi parenti in Inghilterra tutte le sere prima di addormentarsi. Più che di lettere si trattava ovviamente di pagine di un diario di viaggio, che fu pubblicato a Londra nel 1842 dall’editore Newby col titolo “A pedestrian tour in Calabria and Sicily”. Pare che quel libro sia ormai introvabile, ma abbiamo potuto leggerne almeno la parte riguardante il Cilento grazie ad una traduzione italiana pubblicata da un editore cilentano (Arthur John Strutt, Passando per il Cilento, Galzerano Editore - Casalvelino Scalo - SA).
I due giovani ragazzotti inglesi si soffermano a Salerno per due giorni per meglio ammirare il castello di Arechi, ma ciò che attira di più il pittore e autore del diario sono i vestiti in pelle di pecora dei pastori. Raggiungono poi Paestum, dove sono incantati dalla bellezza dei templi greci, ma subiscono le vessazioni di una specie di poliziotto locale, che pretende una mancia per “chiudere un occhio” riguardo ad una specie di fantomatico permesso di soggiorno, e poi quelle del padrone dell’unica locanda, anzi dell’unica casa del luogo, che fa pagare ai viaggiatori questa sua unicità, offrendo uno scarso servizio a prezzi esosi. Una scalcinata guida locale li accompagna in mezzo alle superbe rovine, tra cui spicca – a parer dell’autore – il tempio di Nettuno, il più bello e meglio conservato. Il giorno dopo i giovani si decidono finalmente a superare le “colonne d’Ercole” e raggiungono Agropoli, dove però non si fermano, a causa della pessima reputazione degli abitanti, che sarebbero discendenti dai saraceni. Arrivano quindi a Castellabate, dove trovano un ottimo alloggio grazie ai buoni uffici di una specie di autorità locale, un uomo corpulento che viaggia a dorso di mulo accompagnato da due servi a piedi e che si ripara dal sole con un ampio ombrello rosso. A Castellabate ricevono l’opulenta ospitalità del barone Perrotti, che offre loro un pranzo abbondantissimo a base di zuppa, salame, olive, acciughe, polli, asparagi, fritto misto, pesce, quaglie, formaggi, frutta fresca e vino, pranzo che stranamente il giovane inglese si ostina a chiamare “breakfast”. Le tappe successive di questo viaggio nella terra incognita mostrano un mondo sempre più chiuso e dimenticato, che però accoglie i due stranieri con la curiosità di chi per troppo tempo è stato tagliato fuori dal mondo. L’impiegato del telegrafo ottico di Ascea (ancor oggi il promontorio che chiude a sud la lunga spiaggia di Velia si chiama Punta del Telegrafo), mentre annuncia con fierezza ai due giovani che un messaggio ricevuto da Palinuro e prontamente ritrasmesso verso nord “arriverà a Napoli in mezzora”, pure si informa delle caratteristiche dei telegrafi inglesi. E un vecchio incontrato poco prima al guado del fiume Alento (i ponti ancora non esistevano) dichiara disperatamente agli inglesi: “Qui moriamo di fame!”. E più avanti, a Palinuro, il giovane Arthur John Strutt, di solito sempre attento ai particolari, si dimentica, forse volontariamente, di descrivere lo spettacolo dei crani dei fratelli Capozzoli esposti sulle picche nella piazza del paese dall’ormai lontano 1828, quando il generale Del Carretto, per ordine di Francesco I di Borbone, represse nel sangue una rivolta tutta cilentana. Una rivolta che era stata in qualche modo ispirata dal breve passaggio di Gioacchino Murat, che da re di Napoli aveva prediletto il soggiorno di Palinuro (il suo palazzo esiste tuttora sull’omonima piazza) e che, oltre ad aver disegnato l’utopia troppo precoce di un’Italia unita sotto le sue bandiere, aveva inculcato in queste popolazioni il senso civico, l’idea democratica, la coscienza dei propri diritti. Messaggio che l’oscurantismo della restaurazione non era riuscito a cancellare e che forse sopravvive ancora oggi.
Il percorso cilentano dei giovani inglesi si conclude nel porto di Sapri, dove un elegante brigantino francese proveniente da Marsiglia, alla fonda per caricare legname, testimonia i legami di questa terra con un mondo geograficamente lontano, ma, stranamente, molto vicino nel sentire e nella cultura.
L’osso d’Italia, inaspettatamente, affonda le proprie radici nel profondo Sud. Inaspettatamente, perché la storiografia corrente ha preferito sempre favorire un’immagine di arretratezza, utile alle tesi del vincitore, che ebbe la ventura e la fortuna di realizzare l’unità d’Italia, utopia che altri già molto tempo prima avevano sognato e disegnato. Per convincersene basta guardare lo sguardo fiero e azzurro dei vecchi contadini e dei pastori di queste terre, dei pescatori dal purissimo profilo greco, eredi di quel Palinuro, che il fato volle trattenere per sempre su questi lidi, mentre era intento a governare la nave di Enea, destinato alla gloria di Roma.
Il collega Vitolo, direttore del mensile Hermes, con questa nota così ben articolata inviata dal Cilento, fornisce un corposo contributo all'idea lanciata sin dallo scorso numero de II Cerchio relativa alla costituzione di un Parco Letterario che, partendo dall'Abruzzo, si estenda anche oltre, mirando alla valorizzazione della cultura dell'interno del Mezzogiorno, quell' 'osso' cioè di cui amava parlare e scrivere Manlio Rossi Doria e che, come Vitolo ci dimostra, investe zone molto estese che vanno al di là dello stretto ambito delle regioni amministrative, così come oggi le conosciamo. Un'utopia? Forse sì. Ma se attorno a quest'idea si coagulassero intelligenze ed energie adeguate probabilmente si potrebbe realizzare il sogno di una riscoperta dei valori e delle memorie di quell’immenso giacimento culturale conservatesi lungo l'asse appenninico dall'Abruzzo aquilano, e alle sue intense interazioni con la Toscana, giù lungo i tratturi sino a proiettarsi verso la splendida luminosità della Magna Grecia. Un solco incontaminato al quale connettere in qualche modo, per arrestarlo, il disfacimento delle grandi città e il sopravvento che sulla “polpa" sta avendo la dimenticanza delle radici e il sopravvento della devianza camorristica. Un percorso sul quale si incontrano figure come Papa Celestino, D'Annunzio e Benedetto Croce, Silvio e Bertrando Spaventa, e poi ancora medici come Paolucci e Cardarelli, pittori come Michetti e Palizzi, gli artefici maiolicari di Castelli, solo per citare alcuni e comunque fermandoci al nocciolo abruzzese del discorso perché, proseguendo questo viaggio fantastico arriveremmo ad incontrare Rocco Scotellaro e i suoi “cafoni”, con le tante affinità e similitudini che pure sussistono nelle genti di montagna.
L'iniziativa lanciata da Il Cerchio in concomitanza con la presentazione del libro di Guglielmo Ardito “Scanno-Storia di gente di montagna, bisturi e tramonti sul lago" ha già avuto un certo riscontro sulla stampa locale e nazionale. La nostra Rivista ha conferito incarico al C.E.R.GE (Presidente il prof. Avv. Massimo Scalfati) di redigere una bozza di statuto che, appena pronta, verrà sottoposta ad una vasta platea di Personalità interessate all'argomento.
Si è sinora avuto modo di informarne il Viceministro per i Beni Culturali, On. Antonio Martusciello, il Presidente dell'Accademia della Crusca, prof. Francesco Sabatini, il Dirigente Superiore del Ministero della pubblica Istruzione, dottoressa Veglione, il Sindaco di Scanno Dottor Angelo Cetrone, la prof. Marta Herling (della famiglia Croce) direttrice dell'Istituto per gli Studi Storici, il prof. Antonio Gargano, direttore dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, la Fondazione Tanturri, il prof. Paolo de Nardis dell'Università di Roma La Sapienza, il prof. Guglielmo Ardito dell'Università Cattolica, il prof. Alfonso Barbarisi della Seconda Università di Napoli, il dottor Mario Giacomo Scavo, il Presidente dottor Pasquale Quaglione e le famiglie Di Rienzo e Tanturri di Scanno, il prof. Francesco D'Episcopo, titolare della cattedra di letteratura italiana all'Università di Napoli Federico II. Sono altresì avvertiti della presente iniziativa i colleghi giornalisti Giovanni Anzidei (AGI), Pierfranco Bruni e Aldo Di Lello (Secolo d'Italia), Gerardo Picardo (ADNKRONOS), Aurora Cacopardo (Roma), Benedetta de Falco (Il Denaro), Vera de Luca (Il Golfo), Rosemary Iadicicco e Alessandra Laricchia (Il Cerchio).
Tutti hanno espresso convinti assensi al progetto, anche in considerazione delle positive ricadute di ogni genere che potrebbero determinarsi anche sotto l'aspetto turistico, economico e occupazionale. Sul prossimo numero nuovi ampi servizi e la proposta di un Convegno a più voci.