(IL MONITORE - agosto-settembre 2005)
Un tema dominante dell’estate appena trascorsa è stata la commemorazione del sessantesimo anniversario dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. Si sa che le ricorrenze annuali sono più sentite allo scadere dei decenni: sarà per questo che tutti, giornalisti, opinionisti, professori universitari, da un capo all’altro del globo, si sono scatenati in disquisizioni, giustificazioni, spiegazioni, analisi morali e dietrologiche, riempiendo pagine e pagine di giornali. Subito dopo la guerra, quando le ferite delle due sfortunate città giapponesi erano ancora fresche e brucianti, nessuno si era posto tanti problemi. L’uso inopinato e improvviso dell’arma atomica fu giustificato dicendo che solo in questo modo si era potuto costringere il Giappone ad arrendersi, evitando così il prolungamento di una guerra che avrebbe provocato più morti di quelli delle città bombardate. Noi stessi, sconfitti e umiliati, con in più la vergogna di una comportamento a dir poco sleale e opportunista, avevamo altro per la testa e accettammo supinamente le giustificazioni dei vincitori (per noi “liberatori”). Oggi però, dopo sessanta anni, è lecito e doveroso riconsiderare spassionatamente quegli avvenimenti.
La guerra – disse Carl Von Clausewitz – non è che la continuazione della politica con altri mezzi. Noi diremmo piuttosto che essa rappresenta la sconfitta della politica e della diplomazia, nonché la resa dell’uomo civile alla sua natura bestiale e primigenia. Forse proprio per mitigare in qualche modo la natura “bestiale” della guerra, i popoli civili si imposero delle regole, addirittura scritte e sottoscritte da tutti, che temperassero in qualche modo la crudeltà intrinseca di essa e le attribuissero un alone di correttezza e “cavalleria”. Una di queste, forse la più fondamentale, dice che in nessun modo è lecito danneggiare e colpire le popolazioni civili, cioè i cittadini non belligeranti e, soprattutto, com’è ovvio, le donne e i bambini. Vorremmo aggiungere che un comportamento del genere merita un solo epiteto: terrorismo. È proprio del terrorismo, infatti, colpire gli inermi e gli indifesi, affinché l’effetto del terrore sia più devastante ed efficace. Questo perché ovviamente il fine dei terroristi non è (o non è solo) il male delle popolazioni civili, ma è soprattutto la pressione che, tramite esso, possono esercitare sui governi di quelle stesse popolazioni (vedi Zapatero in Spagna). E tale – si badi bene – è stato esattamente il comportamento degli americani quando hanno bombardato Hiroshima e Nagasaki. Essi probabilmente non volevano far morire trecentomila inermi poveri giapponesi, donne e bambini compresi; volevano solo che il governo giapponese si arrendesse e firmasse la pace il più presto possibile. L’azione americana fu un’azione terroristica e basta, e non ci sono ragionamenti, distinzioni e dietrologie che tengano. L’abnorme mostruosità di essa, unita all’evidenza che gli americani, così come avevano colpito Nagasaki dopo solo tre giorni da Hiroshima, avrebbero potuto uccidere ancora a loro piacimento, ne decretò la riuscita e la guerra finì.
Oggi, a freddo, sappiamo benissimo che la guerra sarebbe finita lo stesso con l’identico risultato, ma forse a prezzo di un’invasione americana del Giappone, che avrebbe richiesto un tributo di centinaia di migliaia di morti e feriti fra le truppe dell’una e dell’altra parte. Quindi, a conti fatti, gli americani scambiarono semplicemente la vita di trecentomila loro soldati con quella di trecentomila donne, bambini e vecchi giapponesi.
Fu un’azione lecita? Per il diritto internazionale non lo fu. Fu un’azione giusta? Per la morale umana fu semplicemente un’azione mostruosa, di terrorismo selvaggio. Ma – a pensarci bene – di che cosa ci stupiamo? I cosiddetti “alleati”, i cosiddetti “liberatori” sono maestri in delitti del genere. Basti ricordare Dresda, Montecassino, Napoli e tutte le nostre città martoriate, tutte piene di donne e bambini, nessuna, nemmeno una, obiettivo militare. I vincitori furono quindi maestri di terrorismo e, per la sublime ironia della storia, si trovano adesso ad affrontare lo stesso mostro che essi stessi suscitarono in passato. E diciamo questo senza alcuna soddisfazione e acrimonia, ma solo con un’immensa tristezza e preoccupazione per il futuro stesso della civiltà.